
Non solo per la fatica o per il risultato, ma per quello che impari su te stesso. In questo articolo voglio raccontarti tutto: come ho vissuto quei 124 km e 5.400 m D+, com’è andata la mia preparazione (diversa dal solito), cosa rifarei e cosa no. E soprattutto: cosa puoi portarti a casa anche tu se stai preparando un’ultra trail da amatore.
Un percorso tutt’altro che semplice
Chi pensa al Chianti come colline dolci e strade bianche… stavolta si sbagliava di grosso.
Il meteo ha reso questa gara un vero e proprio campo di battaglia. Già nei giorni precedenti le previsioni non lasciavano spazio a dubbi: pioggia battente, temperature in calo e tanto, tantissimo fango.
Ogni salita era una sfida muscolare, ogni discesa un test di equilibrio. Le scarpe erano zuppe dopo un’ora, e da lì in poi è stata una lotta continua. Ho visto gente scivolare ovunque, correre con i bastoncini come fossero remi nel fango, e tratti dove camminare era già tanto.
Eppure, proprio in mezzo a questa difficoltà, ho trovato il gusto della vera ultra trail. Nuda, cruda, senza sconti.

Allenarsi senza lunghissimi? Si può, ma…
Non avevo nelle gambe i classici lunghissimi da 6-7 ore ogni weekend.
La preparazione è stata più “ragionata” e sostenibile, considerando anche gli impegni lavorativi. Ho lavorato molto sulla zona 2, privilegiando l’efficienza aerobica, e alternando allenamenti su strada e trail. Ho usato tantissimo la bici per integrare volume: lunghi sui rulli, salite in Z2, uscite miste.
Il vero punto chiave? Il doppio lungo: due uscite impegnative consecutive tra sabato e domenica. Non sono mai arrivato a 100 km settimanali, ma ho cercato di costruire una base solida e continua, senza mai “bucare” settimane.
Il messaggio è questo: non serve strafare, ma serve continuità.

In gara: il cardio come guida
In gara non guardo mai il passo. Solo la frequenza cardiaca.
Salita in zona 2, discesa in zona 1, pianura in controllo. Il cardiofrequenzimetro è diventato il mio riferimento assoluto: mi ha evitato partenze troppo aggressive e mi ha permesso di gestire ogni fase con lucidità.
Ho visto decine di runner saltare per aria tra il 70° e il 90° km. Io no. E non perché fossi più forte, ma perché sono partito più piano.
In salita ho camminato quando serviva, in discesa ho corso quando potevo. Sempre con l’occhio sul battito, per non oltrepassare il limite.

Il crollo finale: quando la testa vale più delle gambe
Ultimi 15 km: pioggia, freddo, vento. Gambe finite, mani ghiacciate, guanti bagnati.
Ho iniziato a rallentare. Prima camminare. Poi… resistere.
Ero dentro un piccolo incubo: scendeva la nebbia, il respiro si faceva corto, il corpo chiedeva di fermarsi.
Ma lì, in quei momenti, ho capito perché facciamo tutto questo. Per arrivare al limite e attraversarlo. Per imparare a “stare” nella fatica.
Ho stretto i denti, mi sono messo i guanti con mani congelate, ho fatto piccoli passi. Un ristoro alla volta. Un check mentale alla volta. E alla fine… traguardo.

Il lunghissimo ogni due settimane? Assolutamente sì.
Per un amatore che punta a concludere una 100K (o più), il lunghissimo è l’unico vero strumento per testare corpo, mente e nutrizione.
Non puoi costruire tutto con 60 km settimanali sparsi. Serve un allenamento che duri 5-6 ore almeno ogni due settimane.
Serve per abituare lo stomaco a nutrirsi, per capire come gestire i cali, per testare l’equipaggiamento, ma soprattutto per insegnare alle gambe a resistere.
Alternare il lunghissimo con uscite corte e precise è il modo giusto per costruire un corpo pronto. Ma senza lunghi… si arriva al 70° e si spegne la luce.

Cosa mi porto a casa (e cosa consiglio a te)
Questa gara mi ha confermato che:
- La costanza vince sulla quantità.
- La zona 2 è sottovalutata ma potentissima.
- La bici è un’alleata, non una nemica.
- I lunghi non devono sparire, ma essere usati con intelligenza.
- La testa si allena sul campo. E nelle giornate di ma.*
E ora si guarda avanti: prossima sfida, 160 km. Con ancora più rispetto per la distanza… e ancora più amore per questa fatica meravigliosa chiamata trail.